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Furto del cane: I proprietari abbandonati al loro dolore

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Rubare il cane altrui è certamente una delle cose più abiette che la mente umana abbia mai partorito.

Non soltanto per il dolore che causa al proprietario, che si vede privato con la forza di qualcuno che considera come un amico speciale, ma anche per i danni ed i maltrattamenti che possono essere arrecati allo stesso animale. E’ stato davvero un brutto colpo quello di sentirmi dire da un caro amico, che di recente ha perso il padre, “il giorno delle esequie, sapendo che in casa non c’era nessuno, estranei si sono introdotti nella mia proprietà e mi hanno rubato un cane”.

Ebbene si, “mi hanno rubato un cane”. E’ possibile che l’essere umano possa spingersi a tanto? Purtroppo, considerando la nostra storia passata e quella contemporanea, la risposta è affermativa.

Sembrerebbe, inoltre, che la pratica del furto di cane sia in espansione in ogni parte del paese.

Le ragioni per la quali i nostri amici a quattro zampe vengono rapiti sono molteplici.

L’avidità di animali ha lo scopo di soddisfare le più inquietanti delle ipotesi: richieste di riscatto, vendette trasversali, lotte clandestine, accattonaggio, mercato di carne e pelle, vivisezione, allevamento irregolare, messe nere e sadismi.

Ed è proprio dopo aversi visto sottrarre il proprio animale che i proprietari vengono lasciati soli.

L’ipotesi di furto del cane non è una fattispecie criminosa tipica prevista dall’ordinamento penale, viene assorbita nell’ambito del furto generico, o con scasso se ne sussistono i presupposti, e mancano quindi azioni particolari volte soprattutto alla ricerca ed alla restituzione della bestiola.

L’unico riferimento specifico è la legge 189 del 2004, che tutela i cani e gli altri animali d’affezione, ma le circostanze concrete la rendono assolutamente inapplicabile.

Il cane stesso, inoltre, non è considerato quale “bestiame” e pertanto non si applicano nemmeno le circostanze aggravanti previste dai casi specifici.

Non va neppure dimenticato che, a livello nazionale, non esiste alcun database generale sul numero e sul tipo di animali registrati (microchip), cosa che rende impossibile qualsiasi determinazione statistica e vanifica ogni tentativo di ricerca capillare. Senza dimenticare che la gran parte degli animali domestici non è regolarmente registrata, sia per mancanza di una precisa normativa in materia sia per l’inerzia dei proprietari, facendo si che molti animali domestici siano, per così dire, “sconosciuti allo Stato”.

Sulla totalità dei furti di cane, inoltre, solo il 3% dei casi viene denunciato, mentre il 15% viene indicato come semplice smarrimento (fonte Associazione Italiana Difesa Animali e Ambiente), ed a tale scopo si ricorda che solo a seguito di una denuncia per furto o rapimento le autorità possono aprire una indagine.

Infine, i problemi endemici del Paese quali l’assenza di una normativa certa, la mancanza di certezza della pena, la mancanza di ricerca capillare, la scarsità del personale di polizia, l’arretratezza tecnologica (quanti commissariati dispongono di lettore di microchip?), uniti alla velocità ed alla scaltrezza dei malviventi, fanno si che la ricerca dei poveri scomparsi sia praticamente impossibile.

Solo pochissime volte, per ottenere un cospicuo riscatto, i cani vengono riconsegnati ai loro proprietari; nella maggior parte dei casi o non fanno più ritorno a casa o vengono ritrovati senza vita dopo qualche tempo.

Sicuramente il modus operandi tipico italiano (o italiota) addiverrebbe a dire le solite cose, ormai banali, relative al “sistema ed al fatto che deve cambiare”. Cosa che, fra l’altro, non avviene mai.

In questo caso il cambiamento deve provenire da noi, in piccolo, registrando correttamente i nostri cani all’anagrafe canina (microchip), denunciando correttamente alle autorità tutti i casi di furto, rapimento o maltrattamento, attivandosi a mezzo stampa per pubblicizzare le notizie.

Nello specifico chiunque avesse notizie di Fanni, detta Fannina, una drahthaar di quasi due anni, che potete vedere nella foto, con una macchia bianca sulla zampa sinistra, numero chip 380260020122302 è pregato di allertare le forze dell’ordine, che si metteranno in contatto con il legittimo proprietario.

Paolo Leone

Manifestiamoci, ancora. L’essenza di Manifest

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Dopo aver intervistato i fondatori di Manifest, ed aver da loro sentito quali sono le idee base del progetto, è il momento di sentire le opinioni degli altri partecipanti. Alcuni di loro, come Simona Castagnaro o Vincenzo Costabile, vivono a Lamezia. Altri, pur essendo integrati nel progetto, vivono altrove, in particolare Andrea Icardi (Alessandria), Pierluigi Cuccitto (Pesaro, ora Cosenza), Giulia Vismara (Brianza).

Senti la necessità di manifestare qualcosa? Se si, cosa?

Andrea: Sento la necessità di manifestare me stesso.

Pierluigi: Sento la necessità di manifestare la libertà di aver qualcosa di personale da dire sul mondo, in anni di pensiero omologato

Giulia: Sento ogni giorno la necessità di manifestare. Ogni giorno qualcosa di diverso, ogni giorno qualcosa di differente. Sento la necessità di manifestare innanzitutto la bellezza delle piccole cose guardate attraverso occhi sempre nuovi.

Vincenzo: Penso che abbiamo tutti bisogno di manifestare la nostra presenza nel mondo, ma non dev’essere fatto con ostentazione e manie di protagonismo.

Simona: Sento la necessità di manifestare le mie sensazioni e di trovare il mio posto, all’ interno di un mondo e di un contesto, dove, sfortunatamente, e generalmente, vivere è semplice, ma appartenere è impossibile. Dunque, il mio proposito non è facile, ma ci provo, ugualmente e testardamente.

Perchè Manifest?

Andrea: Perché posso appunto manifestare ciò che mi passa per la testa, senza alcun vincolo.

Pierluigi: Perchè da soli non si fa mai nulla; e perché la comunità oggi va riscoperta. Inoltre ho trovato ragazzi come me, che hanno lo stesso modo di vedere le cose e di vivere

Giulia: Perché Manifest ti spinge a manifestare. Già dal nome ti stuzzica quella voglia di rovistare nel più profondo del proprio essere e dare sfogo a quei pensieri che troppo spesso per mancanza di tempo o di coraggio si tengono nascosti persino a sé stessi.

Vincenzo: Manifest è un falò attorno al quale noi leggiamo e ci riscaldiamo e che illumina la notte lametina.

Simona: Perché, appunto, si vuole andare “contro”, o, per meglio dire, si vuole andare “oltre”. Nel mio caso, parlo di un “oltre”, posto in relazione al mondo e al contesto che ho descritto e a quelli che possono essere i miei limiti. Ho imparato, grazie a questo progetto, che mettersi in gioco è fondamentale.

Quale è il tuo livello di coinvolgimento?

Andrea: Il mio livello di coinvolgimento credo sia quanto mi sia possibile. Risiedendo lontano dalla maggior parte degli altri membri, e da dove si sviluppa la principale attività di Manifest, la presenza fisica mi è difficile, però, non essendo l’unico Manifestante che risiede al Nord, mi piacerebbe incontrarmi con gli altri e, seguendo la scia del gruppo dei lametini, organizzare qualcosa anche quassù.

Pierluigi: Pieno, e spero aumenti!

Giulia: Sono solo agli inizi, sono una che si immerge lentamente, con i tempi di cui necessito. Ho bisogno di ponderare ogni mia scelta e sapere fino a che punto posso coinvolgermi di volta in volta. Non voglio affrettare troppo i tempi e ritrovarmi a non saper gestire come vorrei.
E’ un coinvolgimento lento, ma che di volta in volta sarà sempre più profondo.

Vincenzo: Penso che la particolarità di Manifest sia il fatto che vengono tutti accolti e la sua ragion d’essere è permettere a tutti di esprimersi.

Simona: Sono molto attiva. Ho pubblicato sul blog più di trenta scritti.

Sei entrato/a in Manifest in un secondo tempo rispetto al nucleo originario, chi o cosa ti ha avvicinato al progetto?

Andrea: Manifest è nato il 25 gennaio 2014, il mio intervento sul blog è datato 11 febbraio perciò posso affermare di essere quasi parte del nucleo originale. Ad avvicinarmi è coinvolgermi nel progetto è stata la mia amica Simona Barba Castagnaro.

Pierluigi: Vi sono entrato grazie alla conoscenza di Domenico DAgostino, e fin dallinizio del progetto. Lo ringrazio immensamente!

Giulia: Sì, io sono una degli ultimi acquisti di Manifest. E’ stato Andrea Icardi a propormi di seguire questo blog.
Conoscendoci non da molto tempo stavamo discutendo dei nostri vari interessi e gli ho rivelato la mia passione per la scrittura; incuriosito mi ha chiesto di passargli un mio pezzo e mi ha proposto di far parte degli autori.
Ero davvero emozionatissima il giorno in cui ho parlato per la prima volta con Domenico e onestamente non sapevo cosa si aspettasse da me.
Però evidentemente è stato piacevolmente colpito.

Vincenzo: Si, ho conosciuto Valeria nell’ambiente del teatro, ho partecipato con loro all’evento Parole in movimento. Scoprendo il blog mi sono offerto di scrivere. Le ho fatto leggere qualcosa che ho scritto e le è piaciuto, mi ha presentato a Domenico che mi ha accolto fraternamente.

Simona: Faccio parte di Manifest, fin dagli esordi, ed è stato Domenico D’ Agostino a contattarmi. Nonostante, ancora, mi conoscesse, appena, ha centrato in pieno il centro delle mie passioni. Quindi, ho accettato.

Hai fatto esperienze simili anche prima di Manifest?

Andrea: No, assolutamente.

Pierluigi: Sì un collettivo studentesco nella mia città, Pesaro, fra il 2010 e il 2012

Giulia: Non ho mai provato a far parte di un grande blog, di una grande famiglia. Le mie esperienze precedenti si limitano ai temi scolastici e qualche sporadico post su una pagina di citazioni.

Vincenzo: Più volte mi è stato chiesto di scrivere per blog di amici, ma mi sono quasi sempre limitato a postare commenti.

Simona: Scrivo da parecchi anni, ma non ho mai reso pubblici i miei scritti. Del resto, la mia è una scrittura profondamente introspettiva e ho, sempre, faticato a “denudarmi” in tal senso. Con Manifest ho provato ad osare.

Come fa, secondo te, Manifest a fare da collante fra diverse arti?

Andrea: Semplicemente perché non ha vincoli, non ha barriere, ma è un luogo virtuale dove chiunque si può esprimere liberamente, secondo le proprie capacità, idee e pensieri.

Pierluigi: Perché larte di qualsiasi tipo è unita da un linguaggio comune: avere qualcosa da dire su quello che accade e quello che ci circonda!

Giulia: Secondo me sono le diverse arti a fare da collante all’interno di Manifest.
L’arte in quanto tale ha diverse sfaccettature ma porta tutta quanta a qualcosa di bello ed unificante. Se non esistessero le diverse sfumature dell’arte Manifest non avrebbe senso e vita.

Vincenzo: Penso che quando si riuniscono persone creative sia normale che venga il desiderio di sperimentarsi in altre forme d’arte, senza porsi limitazioni.

Simona: Grazie alla mancanza di vincoli e alla possibilità di rappresentare se stessi nel modo che si preferisce.

Parlami (in breve) della tua passione per la scrittura.

Andrea: La mia passione per la scrittura è semplicemente un bisogno naturale di esprimermi, non tanto per comunicare qualcosa agli altri, ma per comunicare innanzitutto a me stesso.

Pierluigi: Scrivo perché amo ascoltare e raccontare storie, creare mondi plausibili- scrivo Fantasy- e perché ho qualcosa da dire sul mondo

Giulia: La mia passione per la scrittura è nata quando avevo 12 anni, quasi per caso.
E’ nata innanzitutto come necessità di sfogarmi in un periodo piuttosto buio della mia vita e poi pian piano è diventato un mezzo per capirmi e farmi capire.
Molto spesso ancora oggi mi ritrovo a preferire un testo scritto rispetto ad un colloquio, poiché su un foglio mi sento come se potessi mettere tutto ciò che produce la mia testa complicata e rendermi conto che in realtà non era così difficile.
La scrittura è per me una scoperta continua di me stessa e del mondo.

Vincenzo: Scrivere ha la funzione di indagare nella propria anima, interrogare il cuore e la mente, ma anche quella più pragmatica di far conoscere, informare, condividere, organizzare.

Simona: Ho iniziato a scrivere per l’ esigenza di sfogare il mio universo interiore e per l’ esigenza di lasciar vivere le mie emozioni. Se posso permettermi una battuta, ho iniziato a scrivere per non andare dallo psicoanalista. Scrivere, per me, in sintesi, è stato ed è, ancora, adesso, un percorso di auto-analisi, un percorso, grazie a cui ho preso consapevolezza delle mie inclinazioni e che ha dato una svolta positiva alla mia vita, permettendomi di capire che ho un talento anche io.

Qualcuno prepara un elaborato sbagliato in lingua o grammatica: come ti comporti?

Andrea: Magari cerco di farglielo notare, aspettandomi che gli altri facciano lo stesso con me.

È molto più facile notare gli errori altrui che i propri.

Pierluigi: Glielo dico, ma senza essere pesante, magari con una battuta

Giulia: Vedere errori grammaticali anche in frasi quotidiane per me è un vero e proprio abominio.
E’ un dovere conservare la bellezza e la correttezza di questa lingua e purtroppo oramai a nessuno sembra importare veramente.
Abbiamo iniziato a rovinare tutto con il linguaggio SMS: a volte è necessario usarlo, in situazioni in cui davvero abbiamo poco tempo; ma troppo spesso si usa a sproposito anche quando non serve ed è semplicemente indecente.
L’italiano è la nostra lingua e va rispettata non calpestata. Chi prepara un elaborato sbagliato nella lingua o nella grammatica DEVE essere corretto immediatamente e bisogna insegnargli il tipo e la gravità di errore fatto.

Vincenzo: Lo faccio notare.

Simona: Sono molto puntigliosa e meticolosa. Quindi, credo che segnalerei, immediatamente, gli errori che ho notato, ma, sempre e comunque, con l’ umiltà che mi contraddistingue. Fare “il fenomeno” non è, certamente, tra le mie peculiarità.

Andresti via da Lamezia? Se si, perché. Se no, cosa faresti per migliorare il territorio?

Andrea: (Facendo finta che la domanda sia riferito a dove abito io, Alessandria). Non escludo questa possibilità, la vita spesso può portare lontani dalle proprie origini. Penso che per migliorare qualcosa bisogna prima conoscere, quindi prima cercherei di conoscere ogni minima sfaccettatura, pregio o difetto e dopodiché cercherei di eliminare o rendere invisibili i difetti, per valorizzarne i pregi.

Pierluigi: Sono arrivato a Lamezia da poco, e non so cosa mi riserverà il futuro. Però spero di rimanerci più a lungo possibile. Penso, da quel poco che ho visto, che noi giovani dobbiamo inserirci nel territorio con le nostre menti e lasciarlo meglio di come lo abbiamo trovato, con ogni sorta di iniziative e sensibilizzazioni

Vincenzo: Non sono di Lamezia e il primo periodo che sono stato qui me ne lamentavo, ma ho imparato ad apprezzarla per le sue ricchezze a prima vista celate.

Simona: Non amo Lamezia, sinceramente. Non amo la sua mentalità, il pregiudizio galoppante, la chiusura. Eppure, non riesco a lasciarla. Lamezia rimane la città dei miei affetti e delle mie radici e, seppur ogni suo aspetto ci renda “lontane”, rimane e rimarrà, sempre, una linea invisibile, ma percepibile, ad unirci.

Come vedi Manifest fra 1 anno?

Andrea: Tra un anno lo vedo ramificato anche in altre zone d’Italia.

Pierluigi: Lo vedo espanso in Calabria e in Italia, partecipando a numerose iniziative.. e tanta gente in più che segue il blog!

Giulia: Speriamo di conquistare il mondo! Ma andrebbe bene anche avere un po’ di membri attivi per ogni regione d’Italia. Dobbiamo andare avanti, dobbiamo ingrandirci e farci sentire.

Vincenzo: Sono bellissimi gli eventi che abbiamo organizzato negli ultimi tempi. Immagino ancora più eventi, reading, collaborazioni, presentazioni, mostre. Auspico la nascita di una associazione culturale, da cui però il blog resti indipendente.

Simona: Spero che Manifest possa crescere, ancora, e farsi conoscere come merita e spero che, insieme ad esso, possa crescere anche ognuno di noi, come individuo a sé stante. Del resto, siamo tante personalità diverse, ognuna con le proprie tendenze e caratteristiche, che sarebbe bello poter palesare, con il relativo riscontro.

Paolo Leone

Giovani e cultura, a Lamezia si può: Manifest!

Iniziano ad operare sul territorio i ragazzi con la comune passione per la scrittura.

Cosa significa “manifestare”, se non esporre in pubblico in maniera chiara e puntuale una propria convinzione? E questa parola, per come viene usata oggi dai media, deve avere necessariamente una accezione negativa? Assolutamente no, ed a Lamezia, con Manifest, ne abbiamo avuto la conferma.

Manifest è una piacevole realtà cittadina, e non solo, che riunisce in un collettivo molti giovani che hanno in comune la passione per la scrittura. Nato dall’idea di Domenico D’Agostino, al progetto hanno aderito immediatamente Aldo Tomaino e Valeria D’Agostino, venendo così a costituirsi quel nucleo iniziale che poi si è rapidamente espanso, coinvolgendo molte altre persone, giovanissimi nella maggior parte.

Il “manifesto” così costituito pone al centro la Scrittura Creativa: non solo elaborati originali, scritti da giovani, ai quali viene dato risalto sul web, ma anche scrittura usata come collante, ovvero quale strumento per collegare diverse discipline come arte, musica, fotografia.

La creatività del gruppo è anche sinonimo di diversità. Pur rimanendo la scrittura quale base del lavoro, infatti, le diverse vedute, ispirazioni e nature dei partecipanti rendono Manifest un raccoglitore dove contenere la passione dei singoli.

L’attività del collettivo inizia sul web, con la creazione di un blog consultabile all’indirizzo www.manyfestt.wordpress.com, poi espandendosi ad aventi organizzati sul territorio.

A giugno 2014 si è dato vita al flash mob “parole in movimento”, dove post-it colorati con citazioni libere (dalla letteratura alla musica) sono stati attaccati a cose e persone. Successivamente il collettivo ha utilizzato spazi concessi o inviti ricevuti da associazioni, in cui Manifest ha avuto la possibilità di creare o personalizzare molteplici tavoli di lavoro.

Possiamo infatti ricordare le partecipazioni all’Ecofaggeta Festival, alla mostra Meridies, il contributo all’organizzazione del Lamezia Chess e l’evento Manifestiamoci con la creazione del laboratorio in movimento.

La fiamma di passione che da forza a Manifest è certamente forte e punta a diventare sempre più grande: il gruppo progetta di poter arrivare anche in altre regioni e di diventare una nuova ed interessante realtà a livello nazionale.

In questa società contemporanea, fondata su moda, fashion e apparenza, una realtà del genere è sicuramente apprezzabile, oltre che molto rara, ed offre certamente una vetrina per chi ama scrivere o utilizza la scrittura in maniera complementare ad altre discipline. Tutti gli interessati possono contattare Manifest su Facebook o su Twitter https://twitter.com/blogmanifest.

Le attività di questi ragazzi sono ancora in fermento ed altre iniziative saranno presto realizzate.

Preparatevi, dunque, a sentir parlare ancora di Manifest o, come esso stesso si definisce, un “collettivo di amici scrittori”.

Paolo Leone

Una proposta per cambiare la Costituzione: Art. 34/bis Diritto Accesso ad Internet

intervista a Guido D’Ippolito, promotore del Ddl. Cost. 1561/2014

1) Caro Guido, iniziamo questa nostra intervista delineando in sintesi cosa costituisce la vostra proposta.

La nostra non è una semplice proposta, è un vero e proprio disegno di legge costituzionale, il numero 1561 del 10 luglio 2014 ed è diretto all’inserimento in costituzione dell’art. 34-bis, ossia l’accesso ad Internet come diritto sociale.

Potete trovare ogni informazione al riguardo sul nostro sito www.art34bis.it o consultare i video esplicativi sulla nostra pagina Facebook “Art 34bis diritto di accesso ad Internet” (https://www.facebook.com/34bis) o seguirci e interagire con noi sull’account Twitter @art34bis.

Molto sinteticamente esso è il diritto di ogni cittadino di connettersi ad alta velocità ad Internet in qualunque zona d’Italia. Per converso è anche l’obbligo per lo Stato di realizzare le infrastrutture di connessione alla Rete, ossia diffondere la banda ultra larga ovunque, anche in quelle zone con scarsa o assente copertura Internet, sfruttando la fibra ottica ma anche le frequenze non utilizzate dello spettro.

I vantaggi della proposta sono molteplici ma possono essere riassunti in tre punti:

  • espansione e tutela di tutti i diritti, mettendoli al riparo sia da ingerenze dello Stato che di privati economicamente più potenti; si porrebbero così le basi di una vera democrazia elettronica; (presto avremo un video per spiegare questo punto)

  • rimozione delle discriminazioni sociali sia antiche, come quelle relative a disponibilità economiche o disabilità fisiche o altro, sia nuove come il digital divide, ossia il discrimine tra chi può effettivamente accedere ad Internet e chi no, e l’analfabetismo digitale, ossia una scarsa conoscenza delle nuove tecnologie che impedisce di sfruttare e godere al meglio dei vantaggi di questi; (trovate il video sulla pagina Facebook o a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=Nc53pR4Koe8&index=3&list=PLWiQciv4MknSD-WS41cfxL40o53Xiiyh0)

  • uscita dalla crisi economica perché l’art. 34-bis: creerebbe nuovi posti di lavoro, impiegherebbe i nostri studenti in diverse facoltà, aumenterebbe il PIL, incentiverebbe i commerci e la domanda e offerta di servizi, semplificherebbe la burocrazia e digitalizzerebbe la PA, incentiverebbe l’impresa sia tradizionale che innovativa (start up), attirerebbe capitali e investitori stranieri e tanto alto ancora. (trovate il video sulla pagina Facebook o a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=hxz4MylG0nQ&index=2&list=PLWiQciv4MknSD-WS41cfxL40o53Xiiyh0)

Guardate i miracoli che ha fatto l’Estonia investendo nel digitale. Se una proposta del genere venisse approvata, nulla impedirebbe che l’Italia diventi la nuova Silicon Valley.

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2) Perché lo definite “diritto di accesso”? E perché “diritto sociale”?

Tutti concordano ormai che Internet sia un bene comune fondamentale, un attributo della cittadinanza, uno spazio di crescita individuale e sociale ma anche giuridico ed economico, un luogo in cui si esercitano diritti, si adempiono doveri e si usufruiscono di infiniti servizi. Famosa è anche la definizione di Riccardo Luna: “Internet è un’arma di costruzione di massa”.

Internet è un potentissimo strumento di istruzione e informazione. In breve Internet è un servizio universale, un servizio sociale essenziale. E se Internet è tutto questo allora la possibilità di accesso ad esso non può che essere considerato un diritto e in particolare un diritto sociale.

I diritti sociali sono quei diritti che riequilibrano le risorse spostandole da chi le ha a chi non le ha in modo da dare a tutti le medesime possibilità di sviluppo e crescita. Pensate ai classici diritti sociali come la salute e l’istruzione. Così come lo Stato costruisce ospedali e scuole per rendere effettivo il diritto alla salute e l’istruzione, con l’art. 34-bis dovrà realizzare e adeguare le infrastrutture di connessione ad Internet per garantire la connessione e quindi l’accesso a un patrimonio sterminato di conoscenza, crescita e possibilità.

Infine, a differenza di altre proposte simili, abbiamo preferito legare l’accesso ad Internet a un diritto che riteniamo importantissimo, il diritto all’istruzione (art. 34 Cost.). L’Italia è agli ultimi posti per diffusione della banda larga e per velocità di connessione; ma il ritardo italiano non è solo strutturale è anche culturale. Quindi per progredire non basta solo investire in infrastrutture, bisogna investire anche in formazione, informazione, crescita culturale e sociale. Ci teniamo quindi che la nostra proposta sia associata non solo alla libertà di espressione (diritto altrettanto importante) ma soprattutto al diritto all’istruzione, per sconfiggere non solo il digital divide ma anche l’analfabetismo informatico.

Il digitale deve smettere di essere un fenomeno di “nicchia”, per citare un bell’articolo di Nello Iacono, e diventare la quotidianità, la realtà di tutti: cittadini, giornalisti, imprenditori, politici e così via.

3) Perché ritenete che sia vantaggioso inserire questo articolo nella nostra Costituzione?

Perché inserirlo in una legge ordinaria o peggio ancora nella normazione secondaria non otterrebbe alcun effetto. Anzi vanificherebbe l’obiettivo finale di creare un diritto sociale, complicherebbe il quadro normativo, non tenendo per niente conto dell’esigenza di assicurare la c.d. semplificazione normativa, e soprattutto non tutelerebbe i diritti dei cittadini da eventuali ingerenze tanto dello Stato (si pensi alle famose leggi bavaglio che ogni tanto riappaiono) tanto dei cosiddetti Over The Top, multinazionali economicamente troppo potenti che lucrano sui nostri dati personali.

Tutto questo non succederebbe con una modifica costituzionale, come la nostra, che al contrario avrebbe anche il vantaggio di porre i principi cardine in materia, come quello della Neutralità della Rete (Net Neutrality) per esempio, ordinando così tutta la caotica legislazione in materia di digitale.

L’art. 34-bis sarebbe quindi non solo una tutela per i cittadini, un incentivo all’impresa e al lavoro ma anche una bussola per interpreti a qualunque livello: dal legislatore, ai giudici e così via.

4) In quanto tempo pensate che i benefici da voi previsti possano essere “sentiti” dagli altri cittadini, nella vita quotidiana?

Dal punto di vista temporale i benefici possono essere divisi in due categorie: quelli a breve periodo e quelli a medio-lungo periodo.

I primi sono soprattutto i vantaggi giuridici quindi l’espansione e la tutela di tutti i diritti: dal diritto all’istruzione, alla libertà di espressione, riunione e associazione, all’iniziativa economica privata, alla salute e così via. Questi diritti verrebbero automaticamente tutelati anche nella realtà on line rendendo incostituzionale ogni provvedimento diretto a limitarli.

I secondi sono soprattutto i vantaggi di ordine economico, quelli relativi alla realizzazione delle infrastrutture di connessione alla Rete e, conseguentemente delle rimozioni delle disuguaglianze sociali. Negli anni seguenti alla sperata approvazione della proposta quindi vedrete aumentare la copertura Internet e la velocità di connessione, aumenteranno i posti di lavoro, aumenteranno i commerci e i servizi on line, il PIL salirà ogni anno di almeno un punto percentuale con ricavi di 3,6 miliardi. In poche parole si uscirebbe dalla crisi economica man mano che la banda ultra larga viene diffusa perché come questa diventa capillare ed efficiente allo stesso modo riparte l’impresa e le attività economiche, migliorando le condizioni del sistema Paese.

5) Passiamo all’ambito giuridico: avete pensato anche al testo, in concreto? Se si, come sarebbe?

Ovviamente si. E’ un diritto sociale quindi l’abbiamo collocato nel Titolo II della Parte I della Costituzione, dopo il diritto relativo all’istruzione per le ragioni che abbiamo già detto.

L’articolo, composto da due commi, è il seguente:

Art. 34-bis: «Tutti hanno eguale diritto di accedere alla rete Internet, in modo neutrale, in condizione di parità e con modalità tecnologicamente adeguate.

La Repubblica promuove le condizioni che rendano effettivo l’accesso alla rete Internet come luogo ove si svolge la personalità umana, si esercitano i diritti e si adempiono i doveri di solidarietà politica, economica e sociale.»

6) Perché avete scelto nella novella di affiancare la vostra proposta all’articolo 34, che tratta scuola ed istruzione, e non all’articolo 21, che si occupa di libertà di stampa ed informazione?

In aggiunta a quanto già detto si può dire che: è vero, Internet espande e permette un migliore esercizio della libertà di espressione ex art. 21 Cost. Ma non è solo questo, Internet è molto di più. Giusto per citare altre iniziative secondo me degne di interesse, c’è quella del FOIA, il Freedom of Information Act, perché Internet rivoluziona e espande anche il diritto di accesso agli atti, rendendo quasi obsoleta la legge 241/1990.

Ma Internet espande tutti i diritti per questo riteniamo che legare l’accesso ad Internet solo alla libertà di espressione sia riduttivo e poco rispettoso di Internet stesso.

Internet è ormai presente in ogni ambito della nostra vita e ci aiuta in tutte le attività umane. Internet è un luogo di esercizio dei diritti, adempimento dei doveri e di utilizzazione di infiniti servizi. Ed è in quest’ottica onnicomprensiva che vogliamo tutelarlo, senza limitarci all’art. 21 Cost.

Vogliamo tutelare un mezzo unico affinché questo aiuti l’uomo a espandere la propria personalità in ogni ambito e lo vogliamo fare a partire dalla scuola, dal diritto all’istruzione

7) Non sarebbe, secondo te, il caso di prendere atto che nella società contemporanea scuola, informazione ed istruzione (e quindi anche media ed internet) sono ormai una cosa sola?

Forse, potrebbe essere anche dovuto all’interoperabilità di Internet. Ma secondo me bisognerebbe smettere di dividere tra società digitale e non, agenda digitale e non, scuola digitale e non… e così via. L’agenda di governo di tutti gli Stati coincide sempre di più con l’agenda digitale perché non stiamo parlando di una realtà alternativa e parallela, stiamo parlando di un mezzo che ha modificato profondamente (e continuerà a farlo) la nostra società.

Continuare a distinguere tra digitale e non vuol dire ignorare o non vedere come sta cambiando la società.

L’art. 34-bis va proprio in questa direzione perché operando sia come precondizione all’esercizio di tutti i diritti on line, tanto di quelli già esistenti la cui portata viene però ampliata tanto di quelli “nuovi”, sia di tutte le riforme sul digitale, dalla fatturazione elettronica, i pagamenti elettronici e così via, è diretta a recepire e tutelare una nuova realtà. Vuol dire rendere al passo coi tempi le istituzioni e prendere atto di un mondo che oggi vive anche su Internet.

8) Pensi che l’art.34 bis, qualora trovasse una base politica, possa essere inserito nella nostra carta costituzionale “nudo e crudo” o necessiti di qualche aggiustamento?

Innanzitutto mi piacerebbe che la politica si occupasse di più di queste tematiche, non solo la nostra proposta. Per citare Andrea Beccalli, manager di ICANN, “Ciò che prima era considerato nerd o smanettone, oggi è politicamente strategico”.

Il ddl. Cost. 1561/14 dovrà essere votato in Parlamento e in quella sede è giusto che ognuno esponga le sue idee e modifiche. Non posso dire se l’articolo verrà modificato, posso dire che noi abbiamo fatto di tutto per consegnare alle istituzioni il testo base migliore possibile. Se poi ci saranno migliorie ben venga.

9) Qual è la situazione dei paesi stranieri? Chi è più avanti rispetto all’Italia?

L’Italia è agli ultimi posti sia in Europa che fuori per diffusione di banda ultra larga e quindi per velocità di connessione, con tutto quello che ne consegue sul piano economico e di condizioni di vita.

In realtà dal punto di vista della connessione semplice non siamo proprio messi male. La connessione a 2 Mbit/s copre più o meno tutta la penisola.

La situazione diventa però critica quando saliamo di velocità, anche tenuto conto dell’Agenda Digitale Europea che pone a tutti gli Stati due obiettivi da raggiungere entro il 2020: i 30 Mbit/s per il 100% della popolazione e almeno 100 Mbit/s per il 50% della popolazione. Per il primo obiettivo (30 Mbit/s) siamo terzultimi in Europa, per il secondo (100 Mbit/s) siamo ultimi.

E’ chiaro quindi che l’Italia ha ancora tanta strada da fare e, come anche riconosciuto da AGCOM e AGCM in un comunicato congiunto (http://www.agcm.it/stampa/news/7290-tlc-conclusa-indagine-conoscitiva-antitrust-agcom-su-banda-larga-e-ultra-larga.html), è necessario anche l’intervento pubblico per diffondere la banda ultra larga in quelle zone cosiddette a “fallimento di mercato”, quelle zone in cui gli imprenditori di telecomunicazioni non investono perché non farebbero utili.

Ecco quindi un altro motivo del perché sia fondamentale l’art. 34-bis, far si che lo Stato intervenga nelle zone di fallimento di mercato, magari con joint ventures con imprenditori privati.

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10) Approfondiamo ora gli aspetti personali: perché ti sei appassionato a questo specifico argomento?

Ho cominciato ad occuparmi di Internet e diritto dei nuovi media durante l’ultimo anno di università. Ho scelto poi di fare una tesi in diritto costituzionale che studiava gli impatti costituzionali di Internet ed è inutile dire che questi studi mi hanno non solo appassionato ma anche convinto del fatto che il diritto e le tecnologie non devono per forza essere considerati due opposti. Sarebbe sbagliatissimo pensarlo.

Ciò che serve è svecchiare un po’ il nostro diritto, renderlo più attuale ma con la dovuta attenzione e conoscenza del mezzo tecnologico, nonché con una cultura “digitale” appropriata. Anche per questo, oltre a quanto già detto, dopo la tesi ho iniziato a pensare a come costituzionalizzare il diritto di accesso ad Internet, di cui avevo parlato nella tesi stessa.

Ho scritto così qualche bozza che poi ho candidato al progetto “La tua Idea per l’Italia” di Cultura Democratica. Cultura Democratica è il primo Think Tank interamente composto da giovani che si occupa di favorire la buona legislazione e di portare le idee dei giovani e dei cittadini in Parlamento.

11) Cosa hai fatto, da solo o con gruppi-associazioni?

Da solo ci ho messo l’idea, gli studi e tantissima pazienza e dedizione. Ma è chiaro che devo molto a Cultura Democratica, che mi ha dato la possibilità di presentare la mia idea sia al Senato che alla Camera dei deputati, ma anche all’AGID.

Con Cultura Democratica e il suo presidente Federico Castorina abbiamo creato il gruppo “Innovazione Digitale”, una specie di commissione che si occupata di parlare con esperti, di redigere la proposta che oggi è un disegno di legge costituzionale, di continuare a sostenerla, spiegarla e diffonderla, nonché di occuparsi di altre tematiche affine.

Ringrazio gli altri ragazzi che con me fanno parte della commissione Innovazione Digitale di Cultura Democratica, ma mi sento di ringraziare anche tutte quelle persone che stanno supportando la nostra proposta, anche con un like sulla pagina Facebook o chiacchierandone con gli amici.

12) Nello specifico, quale è stato il tuo apporto al progetto?

Ho avuto l’idea e scritto le prime bozze, all’inizio ero da solo ma poi il gruppo si è rinforzato ed oggi è una squadra fantastica. Sono quindi il responsabile e il coordinatore del gruppo Innovazione Digitale. Con questo ho condiviso l’idea e tutti abbiamo condiviso le nostre conoscenze per giungere all’art. 34-bis. Insieme contattiamo politici ed esperti, curiamo la pagina Facebook scegliendo gli articoli da postare, rispondiamo a chi ci segue su Twitter, e così via… pensiamo anche a metodi efficienti e coinvolgenti di promozione della proposta. Abbiamo infatti realizzato dei brevi video per agevolare la consultazione della proposta, nonché dei fumetti per rendere tutto più semplice e divertente.

Tutti questi materiali li trovate sul nostro sito Internet www.art34bis.it o sulla pagina Facebook “Art 34bis diritto di accesso ad Internet”.

E’ un po’ come se fossi il capitano di un’ottima squadra. Tra questi non sono l’unico calabrese, c’è anche Cristina Salmena di Cassano Allo Ionio e Carlo Salatino di Corigliano Calabro.

Vorrei ricordare anche gli altri componenti: Valentina Cefalù, Elisabetta Abelardi, Cristina Capobianco e Matteo Susta.

13) Quali passi o evoluzioni ha avuto il progetto, ed in che stato è rispetto alla sua definitiva approvazione?

C’è un bel fumetto che spiega l’evoluzione della proposta, lo trovate sulla pagina Facebook “Art 34bis diritto di accesso ad Internet” o a questo link: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.833221120054832.1073741836.745262735517338&type=1&l=8978c6e1e4

Brevemente, tutto è iniziato con la mia tesi di laurea dalla quale è nata l’idea del diritto di accesso ad Internet. Questa viene portata a Cultura Democratica dove si crea il gruppo Innovazione Digitale. Insieme abbiamo incontrato professori universitari, esperti, imprenditori, tecnici, politici finché la proposta completa non è stata presentata in Senato. Qui è piaciuta al senatore Campanella, che oggi collabora con noi, che ha presentato la proposta facendola diventare il ddl. Cost. n. 1561/14, come potete vedere sul sito del Senato: http://www.senato.it/leg/17/BGT/Schede/Ddliter/44665.htm

La proposta è stata depositata presso la 1° Commissione Affari Costituzionali e messa all’ordine del giorno, ossia verrà discussa dalla Commissione. Il senatore ha anche chiesto l’inizio della trattazione quindi, per quanto non è mai possibile prevedere i tempi tecnici delle procedure parlamentari, siamo comunque a buon punto.

14) Concludiamo con qualche domanda “piccante”: la politica ha appoggiato il progetto? Puoi darci qualche dettaglio?

Parliamo della nostra idea di diritto di accesso da quasi un anno e dal 10 luglio 2014 è un disegno di legge costituzionale. All’inizio è stato molto difficile trovare interlocutori, politici e non, però col tempo le cose sono cambiate.

Come per tutto, ogni cosa ha bisogno del suo tempo. I primi giorni è stata dura essere ascoltati, non solo tra i politici, anche tra i cittadini in realtà. Però non ci siamo persi d’animo e le cose sono molto migliorate.

Ogni giorno aumentano il numero di persone e cittadini che ci seguono su Facebook o interagiscono con noi su Twitter. E anche i politici, come i professori ed esperti della materia, ormai hanno imparato a conoscerci.

All’inizio è sempre tutto molto difficile, è normale immagino. Ma sono contento di non essermi arreso perché è ora che cominciamo a vedere i primi germogli di quello che abbiamo e stiamo seminando.

15) Avete avuto qualche gruppo o associazione concorrente con la quale confrontarvi?

Concorrente no. Internet è un mondo che si basa sulla massima apertura e partecipazione quindi la maggior parte di quelli che promuovono campagne o svolgono attività anche molto diverse dalla nostra cercano di crescere insieme. Cerchiamo tutti, come si dice, di “fare rete”.

In particolare collaboriamo coi ragazzi di Cyberlaw, guidati da Angelo Alù che sta inserendo il diritto di accesso ad Internet nello Statuto regionale siciliano (www.dirittodiaccesso.eu/).

Quella dell’open source è una filosofia che mi piacerebbe si spargesse in tutti i settori.

Diciamo sempre che il nostro è il primo disegno di legge costituzionale “open source” perché nato dalla collaborazione di più soggetti e che continua a cercare nuove persone che si vogliano unire per migliorare la proposta. Cerchiamo persone di tutti i tipi e con ogni tipo di competenza perché crediamo che problemi comuni, come quelli di una nazione, possono essere risolti da cittadini con interessi e competenze diverse.

Per questo cerchiamo anche artisti, fotografi, video-maker, fumettisti e quant’altro, perché il ritardo italiano è anche culturale e quello che vogliamo superare è anche e soprattutto l’indifferenza e l’analfabetismo digitale.

16) Infine: sei speranzoso riguardo questo progetto? Hai in mente qualcos’altro per il futuro?

La mia speranza aumenta ogni giorno di più. Ogni giorno aumentano le persone che si interessano alla proposta e ci danno una mano. Solo con la collaborazione libera e spontanea di chi crede nel nostro progetto stiamo facendo qualcosa mai esistito prima: una riforma della Costituzione italiana dal basso.

Il ddl. Cost. 1561/14 sull’art. 34-bis potrebbe concretamente cambiare le cose in Italia partendo contemporaneamente dalla Costituzione e dalla cultura al digitale. Se davvero tutti, cittadini, imprenditori, giornalisti, politici, collaborano riusciremo davvero a migliorare l’Italia.

Nel futuro spero ovviamente di veder realizzata questa sfida.

Per quanto riguarda me personalmente non sarebbe male poter continuare a fare quello che sto facendo ora: combattere il digital divide e l’analfabetismo informatico creando eventi ed iniziative per spiegare i benefici delle nuove tecnologie, essere l’anello di congiunzione tra cittadini e Stato e PA per riportare i bisogni della società nonché segnalare le le zone di buio digitale, quelle prive di accesso ad Internet.

Paolo Leone

Quello che i libri di storia non dicono: il programma nucleare nazista.

Questo articolo è uscito sul mensile Il Lametino lo scorso 21 Dicembre 2013.

Hitler aveva l’atomica? E’ la solita teoria del complotto o siamo di fronte ad un caso diverso?

di Paolo Leone

Per esaminare nel modo più corretto e storicamente accurato fatti del genere occorre partire da ciò che è effettivamente accaduto al tempo del terzo Reich, onde evitare di riproporre quelle aberranti interpretazioni storiche e quelle teorie del complotto che vogliono i nazisti costruttori di ufo, basi segrete sulla Luna, armi fantascientifiche ed altre panzane.

Appare ormai chiaro come la comunità internazionale scientifica e storica abbia a lungo tempo pensato che gli scienziati nazisti fossero molto indietro nella corsa all’atomica; oggi, però, alla luce di studi accurati, nuovi documenti e nuove testimonianze gli esperti sono certi che i tedeschi testarono ordigni nucleari, quantomeno in ambito sperimentale.Dal momento in cui venne scoperta la fissione nucleare (dicembre 1938, scienziati Hahn e Strassmann) la Germania nazista condusse numerosi studi sulla possibilità di realizzare un tipo di arma che sfruttasse queste scoperte.

Il Fuhrer, infatti, ordinò che venissero creati due gruppi di lavoro paralleli sul progetto nucleare: uno civile, diretto da W. K. Heisenberg, per la realizzazione di reattori nucleari per la produzione di energia, ed uno militare, detto progetto Wunderwaffen, con lo scopo di creare appunto “armi meraviglia” tali da sbaragliare qualsiasi nemico; entrambi i programmi vennero avviati nell’estate del 1939, cioè poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale.

Dopo circa due anni di lavoro, entrambi i programmi giunsero alla stessa conclusione: dato che per la costruzione di una bomba atomica sarebbero serviti sia degli impianti di produzione talmente grandi che la Luftwaffe (aviazione militare tedesca) non avrebbe potuto difendere dagli attacchi degli alleati, sia una quantità di uranio tale da richiedere diversi anni di ricerca e lavorazione, la bomba non sarebbe mai stata costruita in tempo utile per la guerra.
Il Fuhrer, pertanto, ordinò la chiusura del programma nucleare militare, per spostare mezzi e risorse in altri settori, mentre il programma nucleare civile si dedicò alla costruzione del reattore sperimentale di Haigerloch, smantellato poi dagli americani nel 1945.

Certamente curioso è il fatto che a quel tempo, anno 1941, la guerra era ancora all’inizio ed i tedeschi stavano vincendo, avendo già conquistato la quasi totalità dell’Europa continentale.
Gli eventi, però, (per la fortuna dell’umanità) presero ben presto una piega diversa: nel 1944, tre anni dopo, i nazisti avevano attaccato l’Unione Sovietica impegnandosi su più fronti (anglo-francese, russo e africano), per di più l’attacco giapponese a Pearl Harbor aveva determinato l’entrata in guerra degli Stati Uniti; ora erano i tedeschi ad essere in difficoltà.
Addirittura il 20 luglio dello stesso anno un gruppo di gerarchi nazisti ribelli al comando del colonnello von Stauffenberg pianificò ed eseguì un attentato contro Hitler che fallì e costò loro la fucilazione.
Il Fuhrer, quindi, ferito e determinato ancor di più a vincere la guerra ordinò la ripresa del programma nucleare militare affidandone personalmente la direzione al fisico K. Diebner, che iniziò a lavorare nella base segreta di Ohrdruf in Turingia.
A differenza di quanto accaduto nel 1941, tuttavia, questa volta alla ricerca vennero dati priorità assoluta e finanziamenti illimitati: i risultati non tardarono ad arrivare.
Consapevole di non poter creare una bomba atomica perfetta per i motivi esposti in precedenza, Diebner orientò il lavoro sulla realizzazione di una bomba “sporca”, cioè con poco materiale fissile ma una potenza comunque rilevante.
Verso la fine del 1944 un primo prototipo venne testato nella stessa base di Ohrdruf e le conseguenze furono devastanti: la base distrutta, prigionieri di guerra rinchiusi vicino al luogo dello scoppio completamente carbonizzati, perfino Diebner dovette permanere per diverse ore nel bunker sotterraneo per non esporsi alle radiazioni.
I risultati sono confermati dagli scritti di Luigi Romersa, giornalista italiano e fascista, che al tempo fu incaricato da Mussolini di visitare le basi Wunderwaffen e fare rapporto al Duce.
Questo è quanto emerge dall’analisi storica del periodo, confrontando fatti, atti e testimonianze; certamente se i nazisti avessero installato queste bombe “sporche” sui razzi V2 di von Braun avrebbero potuto ribaltare clamorosamente le sorti del conflitto, avendo un’arma capace di distruggere intere città con un solo colpo.
Fortunatamente, però, gli Alleati avevano ormai la vittoria in pugno, riuscendo ad impedire l’ennesimo atto scellerato da parte dei nazisti.

Intervista a Fabrizio Basciano, musicista e compositore lametino.

Fabrizio Basciano è un musicista e compositore lametino. Oltre ad aver realizzato diverse opere musicali (http://fabriziobasciano.bandcamp.com/ e http://fabriziobasciano.wix.com/basciano), ha creato l’associazione culturale
LanteArte, con la quale porta avanti una serie di manifestazioni di carattere artistico e culturale nel territorio di Lamezia Terme.

Chi è Fabrizio Basciano?

Iniziamo forse dalla domanda più difficile che si possa porre a qualcuno che se lo chiede da anni, da sempre forse. Risolviamo il problema sul nascere e sintetizziamo: sono un musicologo, compositore dilettante e professore di musica. A ciò aggiungo la parola ricercatore (finora indipendente), interessandomi ad una moltitudine di studi e ambiti differenti.

 

Quando, nel corso dei tuoi studi, hai compreso che la musica era la strada che avresti percorso? Perché?

La mia con la musica è una storia particolare. Ho iniziato per necessità, a causa di alcuni noduli che avevo accusato lungo le corde vocali. Dunque iniziai a praticare il canto armonico e difonico col caro Mauro Tiberi, maestro romano di discipline canore non tradizionali. Al problema dei noduli, presto depennati grazie alle suddette pratiche, si aggiunse poi l’esigenza di tenere impegnate le mani, troppo facilmente soggette al vizio del cosiddetto “scrocchiare”, dunque pensai di studiare pianoforte, divenuto poi il mio strumento principale. Stando alla massima del “prima la pratica, poi la grammatica”, mi appassionai così tanto a qualcosa che sapevo di avere dentro da sempre (fin da piccolo coltivavo la passione grazie ai suggerimenti paterni e delle mie sorelle maggiori) che cominciai a studiare tutta la teoria, l’armonia, la musicologia e così, di conseguenza, la grande musica impropriamente detta classica.

 

Perché hai scelto Roma come sede universitaria?

La mia famiglia ha una storica tradizione di studi nella città capitale della penisola, dunque fu quasi un esito naturale che io mi recassi lì per proseguire i miei. Al di là del bagaglio familiare, sapevo essere Roma una piazza molto interessante per l’ampliamento delle proprie conoscenze e per il confronto con realtà più grande di me. Così è stato. Senza quel soggiorno non avrei potuto interfacciarmi con tutta una serie di stimoli determinanti per il mio percorso personale.

 

Come ha influito sui tuoi studi lo stare lontano da casa?

Devo innanzitutto cogliere l’occasione per ringraziare coloro i quali mi hanno sostenuto lungo questo cammino, ossia i miei genitori, il cui sostegno non potrà mai essere adeguatamente contraccambiato. Andando oltre, vivere lontano da casa e fare i conti con la quotidianità da individuo singolo in una moltitudine incessantemente in movimento, è fattore X per la comprensione della propria posizione all’interno del contesto sociale, del proprio ruolo e delle proprie più profonde attitudini.

 

Parlaci di cosa significa studiare musica, canto e composizione e come sono stati i tuoi studi.

La seria pratica di discipline quali quella della composizione, dell’analisi musicale, della pratica canora, pianistica e, non ultima, computazionale, non lasciano spazio ad atteggiamenti superficiali di qualsiasi sorta, dunque levigano la tua persona fino a mostrare, in parte o, per chi si impegna veramente, la propria vera natura, il lato essenziale del proprio IO. Lo studio è uno strumento, e in quanto strumento non è mai fine a se stesso. Se diventa ciò, se diventa cioè un fine edonistico, si è sbagliato l’approccio a quello che in realtà dovrebbe servire a migliorare se stessi e, dunque, il contesto nel quale ci si trova a vivere e operare.

 

Perché una volta conclusi gli studi hai scelto di ritornare a Lamezia, invece che “cercare fortuna” altrove?

Quello del ritorno è un tema interessante. E’ qualcosa che accomuna molti di noi, molti di quelli che credono abbia un senso investire nella propria terra d’origine, in qualsiasi stato essa si trovi a versare. Ciò non significa certo che, dinanzi a evidenti e troppo grosse difficoltà nel riuscire a realizzare i propri obiettivi, ci si debba intestardire fino a restarne vittime. Occorre sempre cercare le condizioni migliori per le proprie idee, per la realizzazione delle proprie visioni. E’ perciò che, ad oggi, non saprei dire se il mio futuro continuerà ad essere quello lametino e calabrese o se qualche altra terra potrà offrirmi opportunità che qui potrei non trovare affatto. Come si suol dire, chi vivrà, vedrà. Certo è che, nell’ipotesi di una nuova vita fuori dalla Calabria, sarei il primo a sentirmi privato di qualcosa che sento come essenziale alla mia felicità.

 

Ritieni che questa scelta abbia influito, in positivo o in negativo, sulla tua carriera?

Ritengo che ogni scelta, per quanto consapevole o inconsapevole essa possa essere, risulta determinante per se stessi. Questa, nello specifico, finora ha portato evidenti benefici alla mia persona e al mio bagaglio professionale, nonché educativo e umano. Finora è andata così, positivamente. D’ora innanzi le cose potrebbero cambiare. Staremo a vedere.


Ritieni che Lamezia sia una città adatta alla musica? Come vedi la situazione di artisti o gruppi emergenti?

Occorrerebbe distinguere fra ambiti musicali, ambienti, aspirazioni e circuiti. Se vogliamo dirla “a soldoni”, possiamo affermare che Lamezia ora può dire di avere, anche solo a livello embrionale (o anche qualcosina in più direi) un buon giro per quel che riguarda il circuito delle band, della musica rock, indie rock, ecc. Se però ci voltiamo verso quello che è l’ambiente tipico dei circuiti musicali provenienti dall’ambito accademico, conservatoriale e in generale dello studio e dunque della grande musica (che ricordo essere prima di tutto una scienza il cui studio richiede il doppio degli anni che si impiegano a studiare ingegneria, medicina o qualsiasi altro tipo di percorso di studi possibile) allora non possiamo certo affermare che Lamezia sia una città al passo con le attività che caratterizzano luoghi con una più solida tradizione musicale. Certo è che abbiamo, sul territorio, realtà come A.M.A. Calabria che operano in tal senso da tante decadi e che sono riuscite, nonostante le molte e anche recenti difficoltà, a creare un proprio, fedelissimo, pubblico di riferimento, peraltro sempre abbastanza nutrito. Ma da un punto di vista strutturale la città, e più in generale l’intera regione (non a caso la regione più povera d’Italia) non offre i contesti opportuni alla libera fruizione di eventi musicali significativi. Nessun calabrese ha mai avuto modo di ascoltare, nella propria terra, un concerto in un auditorium degno di questo nome. Questo dovrebbe essere un problema all’ordine del giorno perché se solo si fa un paragone coi giovani di qualsiasi altro paese d’Europa, anche tra quelli più poveri, andiamo a scoprire che esiste una cultura musicale, della musica fruita negli auditorium, nei teatri, ecc., che noi qui, allo stato attuale, possiamo solo vagheggiare.

 

In relazione alla precedente domanda, come giudichi la perdita del liceo musicale e del DEMOFEST?

Devo dire che tu vuoi compromettermi fino in fondo, eh? Ahah, scherzo ovviamente. Che dire…rispondo con una domanda: secondo te si potrebbe mai accettare, in realtà (per restare sul suolo italico e dunque senza volerci fare troppo male) quali Perugia, Bari, Catania o tantissime altre città anche piccole come Lamezia Terme, che delle iniziative importanti e con delle ricadute positive sul territorio vengano cancellate per questioni assolutamente estranee ad analisi d’ordine qualitativo delle stesse? A voi l’ardua sentenza. Aggiungo solo che lo stesso stavano cercando di farlo a Catanzaro col centro polivalente meglio noto come Caffè delle Arti. I ragazzi che lo gestiscono sono riusciti finora a tenere duro, a tenere duro cioè per un luogo di aggregazione che toglie una moltitudine di giovani alle maglie del nichilismo e delle sue più becere conseguenze. Ma si può sempre andare avanti lottando contro i mulini a vento? Così stando le cose nulla, dalle nostre parti, potrà mai avere lunga vita.

 

Come si pone, secondo te, la città di Lamezia in relazione non soltanto alla musica, ma all’arte in generale?

Le tue sono domande interessanti e impegnative. Cercherò di riassumere, anche se il discorso è veramente lungo e complesso. Imposto il discorso con una massima Aristotelica: La cultura è un ornamento nella buona sorte, un rifugio nell’avversa”. Ci troviamo oggigiorno in un momento storico terribilmente difficile, nel quale forze avverse tentano di ridurre le popolazioni a semplici soggetti consumanti, clienti, niente più che utenti da bombardare con ogni genere di bisogno indotto. L’antidoto, se proprio vogliamo trovarne uno, è l’agire culturale, che per sua natura eleva l’uomo emancipandolo dalla condizione di semplice usufruitore di servizi non necessari e a lui estranei, massicciamente indotti mediaticamente. Il discorso, dunque, non è locale, ma, se vogliamo, universale. Ora, senza andare troppo su, ma restando coi piedi per terra nell’ambito nazionale, sai quant’è la percentuale del PIL che lo stato italiano decide di destinare alla cultura? Ebbene, l’1,1%, ultimo posto in Europa, anche e persino dopo la Grecia!!! Cos’altro vogliamo aggiungere? Non meravigliamoci poi se la gente ama Maria De Filippi e se Berlusconi continua a vincere le elezioni seppur condannato in cassazione!

 

Perchè hai scelto di fondare l’associazione culturale Lante Arte?

L’Associazione nasce con l’obiettivo di realizzare, sul territorio lametino e calabrese, eventi legati al mondo delle arti visive e della musica, del fare cultura in genere. Iniziative quali FotografArte, PER_CORSI DI_VERSI, Ars Musicae sono risposte che l’Associazione Culturale Lante Arte intende offrire alle domande del territorio. Non avrebbe senso, per comprenderci meglio, realizzare FotografArte in altri contesti come invece ce l’ha qui. Fare paragoni dunque è estremamente rischioso, perché fuorviante. Ciò che ha senso fare qui spesso non ha lo stesso senso altrove, dove può risultare magari anacronistico. Perciò la nostra offerta intende relazionarsi proprio col territorio, immettendo sullo stesso ciò che crediamo manchi.

 

Cos’ha realizzato Lante Arte fino ad oggi?

Le nostre iniziative principali sono FotografArte (mostra-concorso di fotografia che si tiene ogni anno nel periodo natalizio) e PER_CORSI DI_VERSI (evento la cui prima edizione ha avuto luogo nel Museo della Memoria di Lamezia Terme tra fine maggio e inizi giugno 2013 e che pone in connessione arti visive quali pittura, scultura e fotografia con quella musicale, concettualmente e/o artisticamente). A queste iniziative se ne aggiungono diverse altre sporadiche o uniche, quali ad es. Ars Musicae (periodico eBook di cultura musicale). Per avere un’idea completa delle nostre attività basta visitare il nostro sito web: http://www.lantearte.it/

 

Quali sono gli obiettivi futuri?

Bè, un conto è profetizzare quello che mi piacerebbe realizzare, un conto è avere la certezza che quello che sto immaginando possa realmente trasformarsi in realtà di fatto. Il nostro principale obiettivo, ad ogni buon conto, è quello di far sì che eventi come FotografArte e PER_CORSI DI_VERSI, che io amo definire “format culturali”, possano proseguire nel tempo crescendo e sviluppandosi, ricevendo ogni anno un’edizione e dimostrando così che anche a Lamezia è possibile far sì che manifestazioni simili abbiano una continuità temporale. Sarà poi interessante aggiungere a questi due format un terzo progetto che sto maturando da qualche tempo ma sul quale non voglio ora lasciare indiscrezione alcuna…sarà una sorpresa, se sarà!

 

Nel corso della sua attività, l’associazione ha riscontrato gradimento del pubblico in relazione ai lavori offerti? Le istituzioni vi hanno aiutato o sono rimaste indifferenti?

Io sono rimasto veramente stupito dall’affluenza che le nostre iniziative, la cui offerta è sicuramente di non facilissimo approccio, ha registrato. Un pubblico nutrito ma allo stesso tempo attento, curioso, dunque prezioso. Sono felicissimo di aver trovato un tessuto urbano così voglioso di un’offerta non certo canonica, non certo assimilabile a ciò che si può comunemente trovare in luoghi di provincia dove più difficilmente giungono iniziative di questo tipo. Per quanto riguarda le istituzioni, il giudizio è tutto sommato positivo. Non ho mai ricevuto, in qualità di rappresentante di Lante Arte, delle negazioni immotivate o una mancanza di collaborazione, anzi. Chi si trova in comune, forse anche grazie ad una nostra buona predisposizione nel porci adeguatamente e nel comprendere le difficoltà non solo nostre ma anche altrui, ci ha sempre aiutato a realizzare le nostre attività. Certo, come in tutti gli ambienti incontri sempre quello o quella con cui leghi meno facilmente, ma questo è più un fatto umano, di pelle, che istituzionale. Il problema, se veramente esiste un problema, è la scarsa considerazione di cui gode, più di qualsiasi altro settore, quello culturale. Nessuno si sognerebbe mai di affidare la manutenzione della propria automobile a un professore di filosofia inesperto in fatti di meccanica automobilistica. Allo stesso modo occorre entrare nell’ottica che quello culturale è un campo, oltre che estremamente vasto e che dunque richiede conoscenze molto ampie, anche incredibilmente complesso. Essere amatori non basta a pretendere l’affidamento e la gestione delle iniziative culturali.

 

Cos’è la musica, infine, per Fabrizio Basciano?

Mi facevano sempre sorridere le definizioni che della musica trovavo sui libri di teoria o di armonia, sebbene fondate su ordini di consapevolezze altamente strutturate. Per me la musica è Arte del suono, in ogni sua manifestazione, che si tratti di un pianeta col suo suono fondamentale o di un essere umano con la propria espressività o ancora di un volatile col proprio canto. Musica è movimento dell’animo nello spazio…e nel tempo.

Paolo Leone

Spolpiamo l’Italia, parte II: la Telecom spagnola.

La compagnia di telecomunicazioni spagnola Telefonica prende il controllo con soli 800 milioni. Gli azionisti italiani non oppongono resistenza; un altro pezzo del “made in Italy” va all’estero.
Continua da qui.

“Telecom non diventerà mai spagnola. C’è stato solo un cambio di azionariato in Telco.” Così si difende Franco Bernabè, presidente di Telecom e, agli occhi dell’Italia intera, grande sconfitto del momento.
La spagnola Telefonica, con un’operazione del tutto inaspettata dai manager italiani (ed in questo caso non ci stupiamo), ha aumentato la sua quota Telco, holding di maggioranza della Telecom.
Gli spagnoli, che ora hanno il 46% della società controllante, hanno previsto una scalata a tappe forzate, per arrivare al 100% del controllo nel minor tempo possibile: entro fine anno, con un aumento di capitale di 324 milioni di euro, arriverà al 66% delle quote. Nei primi mesi del 2014 seguirà una emissione di azioni Telefonica, per un totale di circa 845 milioni, così da arrivare al 70%. Infine, per salire al 100% di Telco, che ricordiamo essere azionista di maggioranza Telecom col 22,4% delle quote, Telefonica ha in mente di sborsare un altro miliardo circa.

Cesar Alierta, presidente Telefonica

Da più parti s’è levata la voce “il governo intervenga“. Ciò, ovviamente, non è possibile, perchè, si ricorda, la Telecom è una s.p.a., quindi privata, e lo Stato italiano non può interferire con le sue vicende di mercato, salvo esercitare un potere di vigilanza e controllo attraverso la Consob.
Il vero problema, o meglio, la domanda da farsi in questo caso è la seguente: “come è possibile acquistare Telecom a prezzi così bassi?”.
Questo dipende essenzialmente da due motivi principali: il primo è la miopia dei dirigenti, che non hanno saputo espandere il mercato Telecom facendosi travolgere dalla concorrenza e dalla crisi; il secondo dipende dall’elevato debito della società, attualmente pari a 28 miliardi di euro.

Franco Bernabè, presidente Telecom

L’operazione, qualora vada a buon fine, comporterà sicuramente dei cambi a livello dirigenziale, dato che difficilmente Telefonica affiderà il comando a dirigenti di così basso spessore come quelli italiani.
Il presidente di Telecom, Franco Bernabè, ai giornalisti che domandavano se avesse ricevuto rassicurazioni sulla sua permanenza in Telecom ha risposto “lo spagnolo, purtroppo, è una delle poche lingue che non conosco”.
Siamo sicuri, però, che i “top manager“, vuoi la lauta busta paga che ricevono ogni mese, vuoi la loro capacità di riciclarsi meglio della plastica, non avranno problemi.
I sindacati, invece, parlano di ben 16.000 lavoratori a rischio, qualora Telefonica voglia mettere in atto un piano di rientro dal debito.
A queste paure ha cercato di mettere un freno Marco Patuano, amministratore delegato Telecom, ribadendo di non essere “interessato a licenziare nessuno”. Per la sua parola, però, nessuno metterebbe la mano sul fuoco.

Quali sono i pericoli che corre l’Italia, ed i più particolare gli italiani?
Il primo è senza dubbio quello di perdere ancora una volta un pezzo del “made in italy”, aumentando quella de-industrializzazione che inizia a gravare sul Paese [vedi anche “Alitalia francese”].
Il secondo, nonchè il più grave, riguarda tutte le informazioni, intercettazioni e comunicazioni riservate che negli anni ha accumulato la Telecom, che ora potrebbero passare in “mani spagnole”.
Secondo la Consob, infatti, data la numerosità dei dati ed informazioni sensibili, nonchè dei “Big Data” presenti negli archivi Telecom (avete presente i casi Snowden o Assange? Ecco, si tratta di informazioni di quel genere), la compagnia di telecomunicazioni sarebbe un “asset strategico, pertanto non negoziabile”.

In conclusione, noi italiani paghiamo ancora una volta la mediocrità e l’ipocrisia della nostra classe dirigente, e la cosa è molto grave dato che ci costa in termini monetari, di immagine, e di progresso sociale.
Inoltre, la mancanza di una rete tlc statale comporta il rischio di rimanere dipendenti dalle compagnie private, che sappiamo, in nome del denaro, non guardare in faccia a nessuno.

Paolo Leone

PS. per capire l’evolversi della vicenda, e vedere come l’essere umano è agile nel cambiare idea (Beppe Grillo compreso), potete leggere qui e dopo qui.

Spolpiamo l’Italia, parte I: Alitalia diventerà francese?

Il nostro Paese attraversa già un difficile periodo, data la crisi economica e la lenta ma inesorabile perdita dei valori sociali. Dall’estero aumentano i tentativi di toglierci quel poco che resta.
Nessuno fa niente per impedirlo, perchè? Dopo la Lamborghini e la Ducati, ora “tedesche” perchè facenti parte del gruppo Audi, sembra essere Alitalia costretta ad espatriare.
 

E’ iniziata in punta di piedi la trattativa che potrebbe portare Alitalia in mani francesi: proprio in queste ore i dirigenti di Air France stanno decidendo come portare avanti l’operazione.
Chiave di volta sulla quale poggerà l’intera operazione è il debito: gli analisti stimano che la compagnia italiana chiuderà il primo semestre del 2013 in rosso di circa 200 milioni di euro, costringendo i soci a ricapitalizzare immediatamente, iniettando nelle casse societarie dai 300 ai 350 milioni di euro per consentire il fluido susseguirsi dei voli.
Alitalia si difende, sostenendo che queste misure sono “un passo verso il risanamento”ma questa interpretazione non convince gli investitori.
Nel prossimo cda, infatti, sembra proprio che sarà Air France a fare la voce grossa, con l’obiettivo si aumentare le azioni dal 25% attuale al 45-49%, cosi da non dover immediatamente ricapitalizzare ma, di fatto, diventando azionista di maggioranza di Alitalia.

Alexandre de Juniac, ad Air France

E’ proprio l’ingombrante debito però, a frenare le aspettative francesi. L’operazione condotta da Air France, infatti, non punterebbe a cancellare il passivo, ma solo a renderlo “più sopportabile”.
Il totale di 1,1 miliardi di debito, di cui circa due terzi sono legati all’acquisto di nuove aereomobili, potrebbero essere rinegoziati in seno ad una maggioranza Air France.
L’amministratore delegato del vettore franco-olandese, Alexandre de Juniac, ha infatti commentato asserendo che “le necessità finanziarie della compagnia italiana non sono colossali, e l’investimento è alla nostra portata. Più che altro il problema è come risollevare la compagnia portandola a contrastare in particolare i vettori low cost, ai quali il governo italiano ha concesso parecchi diritti di traffico falsando di fatto la libera concorrenza ed il mercato.”
[vedi anche “Ryanair a Bergamo” e “Ryanair vi da il benvenuto a Stocazzemburg“, tutti articoli a cura GSI]

Flavio Zanonato, Ministro per lo sviluppo economico

Fortissima è, quindi, la stoccata contro la strategia dell’Italia nel settore aeroportuale, anche se il Ministro per lo sviluppo economico, Zanonato, fa scudo, dichiarando che “al momento non esiste alcuna trattativa. Queste sono solo invenzioni elaborate dai giornali.” Noi, tuttavia, non ne saremmo così sicuri. Se dalla Francia rimbalzano queste voci, molto probabilmente un fondo di verità c’è.
I giochi, addirittura, potrebbero complicarsi se nella trattativa si inserisse anche Etihad, gruppo arabo che sembra intenzionato ad aumentare il suo traffico aereo in Europa (ah, cosa non comprano i petroldollari!).

Tutto questo, in definitiva, fa male all’Italia? Se si, perchè?
Fa male, anzi, malissimo. In primo luogo perchè un’altro marchio di fabbrica del nostro Paese (dopo Lamborghini e Ducati, per esempio) viene comprato da capitali stranieri.
In secondo luogo, poichè l’acquisizione Air France comporterebbe un piano di rientro che prevede il licenziamento di circa 2000 dipendenti, che quindi rimarrebbero di punto in bianco senza lavoro.
Infine perchè, nella fase di profonda crisi che il nostro Paese attraversa, questa eccessiva de-industrializzazione potrebbe avere nel medio-lungo periodo effetti devastanti sulla nostra economia.

PS. La Commissione europea ha stabilito che il vecchio prestito di 300 milioni di euro che il governo italiano aveva fatto ad Alitalia nel 2008 non deve essere restituito, poichè illegittimo ed incompatibile con le regole di mercato.
I contribuenti, cioè NOI, abbiamo pagato tasse invano, per l’ennesima volta. Certo che a noi italiani piace proprio farci male da soli…

Paolo Leone

Ius soli: tra immigrazione ed integrazione

Le cronache recenti hanno acceso un feroce dibattito su un tema fino ad ora poco trattato, passato in secondo piano a causa della crisi economica e politica che ha colpito il nostro paese: lo ius soli.

IusSoli

Cosa significa, dunque, questa locuzione latina? E’ un’espressione prettamente giuridica che indica l’attribuzione ad un soggetto della cittadinanza per il solo ed unico fatto di essere nato nel territorio di un determinato Stato, con la conseguenziale acquisizione dei diritti e dei doveri che dato status comporta.

Rimanendo sempre in ambito giuridico, i teorici dello ius soli si contrappongono principalmente ai fautori della teoria dello ius sanguinis, che attribuisce invece la cittadinanza solo al nato da almeno uno dei genitori già cittadino di quel determinato stato.

La legislazione attualmente vigente in Italia attribuisce ai nuovi nati la cittadinanza solo se: essi sono figli di madre o padre cittadini; se nati nel territorio della Repubblica da entrambi i genitori apolidi; se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori, secondo le leggi dello Stato di questi.

La tematica, dunque, se già ben delineata e consolidata in ambito giuridico, è stata riproposta recentemente quale “problema sociale” dal Ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge, che ha proposto l’introduzione dello ius soli puro per tutti i nati in Italia da genitori immigrati.

Secondo l’interpretazione del Ministro, sarebbe questa la soluzione ai problemi di integrazione sociale che derivano dalla massiccia immigrazione che vede il nostro Paese meta ultima di molti migranti.

Restando comunque al di fuori della bagarre politica, che non interessa in questa sede, è necessario specificare come questa soluzione non sia largamente condivisa e come negli altri Paesi del mondo “occidentale” le cose funzionino diversamente.

Il primo punto della nostra osservazione impone analizzare la situazione nell’ambito dei confini nazionali italiani.

Siamo sicuri che lo ius sia la soluzione ai problemi di integrazione che affliggono il nostro Paese? Sembra proprio di no.

L’unica vera soluzione ai problemi che derivano dall’immigrazione (soprattutto quella massiccia) è l’integrazione del migrante nella struttura giuridico-sociale del Paese in cui esso si stabilisce.

E per integrazione deve intendersi quella “vera”, che consenta al “nuovo arrivato” di poter comprendere la lingua scritta e parlata, conoscere le regole principali che governano lo Stato (si fa riferimento, per esempio, ai principi fondamentali della Costituzione italiana), allontanarsi da fenomeni quali lavoro nero o criminalità.

Tutto ciò è possibile, ovviamente, solo se lo Stato ha un elevato potere di “assorbimento” e possa mettere il migrante nelle condizioni migliori.

L’esempio che rappresenta in pieno questa situazione è sicuramente la Germania, che ha al suo interno grandi comunità polacche, turche ed algerina perfettamente integrate (i calciatori della nazionale tedesca Ozil, Klose, Podolski, Khedira, tanto per citarne alcuni, sono di origine extratedesca).

Un esempio in negativo, purtroppo, è proprio l’Italia che, complice problemi interni irrisolti da tempo ormai immemore, ha una bassissima capacità di assorbimento e non aiuta i migranti a integrarsi davvero. I nostri Balotelli, Ogbonna o El Sharaawy sembrano più che altro “dei cavalli da parata”, ed il vuoto normativo unito al generale menefreghismo dei politici (ci ricordiamo lo slogan “diamo il voto agli immigrati” solo per raccogliere più voti alle elezioni?) fanno il resto.

Il piano del Ministro Kyenge, dunque, sembra proprio l’ennesima castroneria politico-nazionale, il topolino partorito dalla montagna, che se applicato in pieno, porterebbe più danni che benefici, attribuendo de iure la cittadinanza a coloro che de facto cittadini non sono.

Il secondo punto d’osservazione, invece, consente di spaziare nell’intero globo e verificare se e come lo ius soli venga applicato.

La cittadinanza per nascita dura e pura trova applicazione negli Stati Uniti, in Canada e nei paesi dell’America latina, anche se, dopo l’11 settembre 2001, il Congresso americano con la promulgazione del P.A.T.R.I.O.T. Act offre la possibilità di limitare l’applicazione dello ius soli qualora possa costituire pericolo per la sicurezza nazionale.

In Europa, invece, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda e Grecia applicano uno ius soli particolarmente mediato: in questi Paesi, infatti, esso consiste nell’offrire un percorso “facilitato” per l’ottenimento della cittadinanza se il soggetto è nato e risiede stabilmente in quel Paese.

In conclusione, dunque, piuttosto che continuare con gli slogan e le “sparate” tanto cari ai nostri politici, sarebbe meglio pensare a come migliorare le condizioni degli immigrati ed a come consentire loro di integrarsi, oltre a permettergli di conoscere e far rispettare le leggi, la lingua e le tradizioni italiane.

Solo così l’immigrazione può diventare integrazione; e come direbbe il rag. Ugo Fantozziper me, lo ius soli, è una cagata pazzesca”.

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Novantadue minuti di applausi.

Paolo Leone

Aiuto, il pilota dorme. Chi guida l’aereo?

Questo articolo è uscito sul mensile Il Lametino lo scorso 19 gennaio 2013.

“Buonasera signore e signori, è il comandante che vi parla. Sedete al vostro posto, allacciate le cinture di sicurezza. Siamo in partenza per la nostra destinazione”.

Questo è più o meno il copione col quale inizia ogni volo, con il comandante che tranquillizza i passeggeri prima della partenza.
Dati alla mano, però, i più tranquilli sono proprio i piloti: così calmi che, secondo lo studio della ECA, associazione europea piloti, almeno 1 su 3 si addormenta ai comandi.

Addirittura il 92% dei piloti tedeschi afferma di aver guidato un aereo anche se troppo stanco per farlo.

Giovanni Galiotto, presidente dell’associazione piloti italiani, ha confessato un’episodio in cui si è “sentito molto stanco”, costringendo il copilota a portare a termine il volo da solo.

Da cosa dipende questa “stanchezza”? Dipende, semplicemente, dalla legislazione europea che consente ampie capacità decisionale alle compagnie aree che, per risparmiare sul personale, fissano per i piloti un gran numero di ore di volo consecutive e poche ore di riposo fra un turno e l’altro.

Negli Stati Uniti, invece, la situazione è completamente diversa.
In seguito ad un incidente a Buffalo nel quale l’aereo è precipitato costando la vita a piloti, personale e passeggeri, le autorità americane hanno varato un regolamento molto più severo.

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Un bimotore turboprop Dash 8. L’incidente di Buffalo ha coinvolto un aeromobile di questo tipo, ma di una compagnia aerea diversa. Foto di Giorgio Varisco.

Quello della stanchezza dei piloti è un problema serio e da non sottovalutare.

Nel 2008, in India, i piloti di una compagnia locale si sono addormentati ed hanno mancato l’atterraggio a Bombay, facendo credere alla torre di controllo che addirittura l’aereo fosse stato dirottato.

Nel 2011 i piloti di un velivolo delle Scandinavian Airlines si erano appisolati lasciando il controllo al pilota automatico senza sapere che quest’ultimo non era programmato per atterrare in autonomia, riuscendo ad evitare lo schianto per miracolo.

Certo, il ricorso al pilota automatico è un comportamento di “routine”, ma in caso di tempo avverso o in situazioni di emergenza, quando lo stesso pilota automatico si disconnette, come fa un pilota dormiente o intorpidito dal sonno ad evitare il disastro?

Nel giugno 2009 il volo AirFrance Rio de Janeiro-Parigi è precipitato nell’oceano, causando la morte di tutte le persone che si trovavano a bordo, perchè il comandante ed il copilota dormivano, e non sono riusciti a svegliarsi in tempo per rimettere in quota l’aereo.

In conclusione, l’argomento, che merita la giusta considerazione, necessita di un intervento, quantomeno a livello comunitario, per imporre alle compagnie aree turni più umani e maggior riposo per i piloti, onde evitare il ripetersi di tragedie simili.

Paolo Leone
Foto di Giorgio Varisco, GolfVictorSpotting.it